Quello che davvero il nostro pubblico vuole non è scritto nei manuali di comunicazione, ma nelle loro menti. Ciò che li entusiasma non si trova su Google, ma nelle loro espressioni facciali. Quello che vogliono fare, nei loro comportamenti.

Una storiella

Tanti anni fa lavoravo in Galactica e quasi tutti in ufficio usavano Messenger come forma di comunicazione interna. Le informazioni scambiate potevano essere di lavoro “ti ha chiamato Sara, ha detto che il preventivo è perfetto” e non “ehi! che pettinatura, cosa hai combinato?”. Ogni volta che ricevevi un messaggio compariva una finestrella di notifica. Al posto del nome potevi usare un nomignolo a piacere (nickname). Potevo mettere Paolo o anche El Merendero se volevo. E qui viene il punto della storia. Molti cambiavano il nick a seconda delle circostanze o, per meglio dire, lo usavano come forma di comunicazione ed aggiornamento sul proprio status. E quindi Abelardo, nome volutamente di fantasia :), diventava “Cuore solitario”. Maria Antonietta passava da “La primavera in fiore” a “Li trovo tutti io”. A volte era anche una sfida capire chi era “Dannato lo specchietto” o “Lupo de Lupis”. Il tutto spesso condito da faccine (emoticons) di ogni genere e natura. Era il 1999.

Il pubblico parla

Il nome utente del Messenger non fu pensato per comunicare uno stato d’animo o altro, come sembrerebbe normale che sia peraltro. Ma gli utilizzatori si inventarono un nuovo uso, complice anche il fatto che al cambiamento, se non ricordo male, la notifica arrivava a tutti. In sostanza avevano anticipato di una decina d’anni quello che sarebbe diventato lo status update di Facebook. Osservando il comportamento dei miei colleghi si poteva osservare la richiesta di avere uno strumento come l’aggiornamento stato, al punto di usarne un altro con quello scopo. Le necessità del pubblico umano tendono sempre ad affiorare e se non trovano uno sbocco naturale si manifestano in altro modo, magari piegando alle proprie esigenze quello che trovano al caso.

Rispondere alle esigenze dell’audience vuol dire inevitabilmente fare breccia,  essere pressoché certi che il pubblico avrà un riscontro positivo. Non si tratta solo di cosa vogliono fare. A volte di come lo vogliono fare, o quali informazioni vogliono ricevere o in quale modo è più congeniale.

Quando facciamo una presentazione il nostro obiettivo è quello di trasmettere un messaggio e ottenere uno scopo. Esso può essere informarli, persuaderli o motivarli ad un azione. In tutti e tre i casi proporre loro i nostri argomenti con gli strumenti, l’approccio o la modalità più idonea per loro può essere lo spartiacque fra il successo o sprecare l’occasione.

Capire il pubblico

Quali sono allora gli accorgimenti che possiamo utilizzare per capire il pubblico meglio ed essere più efficaci quando parliamo in pubblico? Almeno tre.

Primo imparare a leggere l’audience. Non concentriamoci solo su di noi ed il nostro messaggio. Osserviamo come reagiscono, cosa risveglia il loro interesse e suscita emozioni positive. Espressioni facciali, postura (ed anche alzare gli occhi dal tablet) sono tutti indicatori importanti da non perdere. L’imperativo è dunque guardare, analizzare ed agire. Dedichiamo attenzione alla nostra platea, usiamo il senso critico per capire che cosa funziona e cosa no ed adattiamo sia i nostri contenuti che la nostra esposizione a quanto appreso.

Il secondo consiglio è quello di provare a variare, specialmente valido quando tendiamo a ripetere la stessa presentazione più volte. Cerchiamo di variarle ogni volta. Sia perché a seguito del punto precedente abbiamo imparato cosa funziona meglio e cosa il pubblico gradisce, sia per poter avere un termine di raffronto. È chiaro che se io presento sempre in un unico modo non potrò mai sapere come l’audience reagirà in altre circostanze. Proviamo allora a sperimentare nuovi approcci, nuove strutture o forme espositive e vediamo come il pubblico reagisce. Inseriamo dei video, delle sezioni di interazione e coinvolgimento, e osserviamo cosa succede, quale riscontro otteniamo.

Ultimo punto, ma non meno importante, lasciamo un po’ di libertà d’azione alla platea se possibile. Un po’ come per il messenger, se ne avranno la possibilità, saranno loro ad indicarci la strada migliore. Non dobbiamo necessariamente dare loro lo strumento migliore, a volte basta solo la possibilità di esprimersi in qualche modo. Al resto poi ci pensano loro.